La felicità è questione di coraggio
Arriva prima o poi un momento della nostra vita in cui nella testa inizia a tintinnare un campanello, che suona un po’ come il preludio di una crisi: sentimentale, lavorativa o personale. Il più delle volte tendiamo ad ignorarlo quel campanello che mina la nostra felicità, nel tentativo di lasciar passare il momento. Ma fidatevi, difficilmente accadrà. Siamo semplicemente noi bravi a nasconderlo attraverso distrazioni di ogni sorta, perché ammettere a noi stessi che abbiamo fallito, che abbiamo fatto un errore di valutazione, che abbiamo preso una strada che non è più la nostra, è svilente. In realtà non sono i percorsi ad essere sbagliati: semplicemente le cose cambiano, noi cambiamo. E quello che andava bene tre anni fa, può smettere di funzionare oggi. Riconoscerlo è un atto di amore verso noi stessi, affrontarlo è un atto di coraggio. Come la felicità.
A diciott’anni credevo che la cosa migliore per me fosse quella di lasciare la vita di provincia e andare a studiare nella grande città. A ventitré anni la grande città ha iniziato a soffocarmi ed ho sentito il bisogno di un posto a misura d’uomo. A ventisette ho capito che avevo una forte urgenza di viaggiare e vedere il mondo, roba che mi sarei messa uno zaino in spalla e sarei partita all’istante; e così ho fatto –senza zaino in spalla però-. Quando ho raggiunto i trenta è stato il momento del voler accorciare le distanze, trovare un posto da chiamare casa, ché per quanto uno possa integrarsi in un luogo, non sarà mai come quello in cui sei nato e cresciuto. A trentaquattro anni ho capito che il posto fisso non esiste, che si può lavorare bene e meglio non necessariamente seduta dietro una scrivania per otto/dieci ore di fila. Per anni mi avevano inculcato che più avrei studiato più avrei avuto la possibilità di trovare un posto sicuro, per la vita. Ed io ho fatto questo: ho studiato, tanto. Ho collezionato corsi di aggiornamento, lauree, master, stage, tirocini, ho lavorato gratis per avere più esperienza, mi sono trasferita all’estero per perfezionare le lingue. E alla fine è arrivato il contratto a tempo indeterminato: solo che quando è arrivato, era cambiato il mondo ed inevitabilmente ero cambiata io. E mentre qualcuno continuava a predicare l’importanza di lavorare di più per guadagnare di più, fare più straordinari per acquisire più clienti, io iniziavo a leggere di filosofie totalmente opposte, di conciliazione tra vita privata e lavoro, che non era sempre vero che più si lavorava e più si guadagnava. Ascoltavo storie di aziende virtuose che chiedevano ai dipendenti di lavorare per raggiungere un obiettivo qualitativo. C’era persino qualcuno a cui non importava da dove lo raggiungevi quell’obiettivo, se da casa o dalla stanza di un albergo.
Erano non uno, ma cento campanelli di allarme. Li ho ignorati per molto tempo, mi sono lasciata convincere per mesi che lasciare un contratto a tempo indeterminato senza avere un’alternativa sarebbe stata una follia. Sembrava quasi che non ci fosse una via d’uscita. Eppure io sapevo che una via d’uscita c’era, che la propria felicità è più importante di un posto di lavoro stabile, che l’onesta nei confronti degli altri è doverosa, ma quella verso se stessi è un imperativo morale. Quando ho smesso di mentire a me stessa, quando quel campanello non ha più smesso di suonare, è stata come una tranvata in piena faccia, ma anche una liberazione. In un primo momento sentivo gli occhi puntati addosso di tutti quelli che pensavano fossi pazza, al punto che ho finito per crederci davvero ed ho cercato di estraniarmi da me e guardarmi da fuori.
Cosa avrebbe fatto un’altra persona al mio posto? Perché non potevo essere anche io come tutte le persone normali che scelgono di studiare, trovare un lavoro stabile, sposare un uomo che le ami –possibilmente coetaneo – fare due figli e vivere nella tranquillità più totale? Riflessioni come queste, possono mandarti in pappa il cervello. Fidatevi. Possono convincerti che stai sbagliando tutto. Poi mi sono resa conto che non si tratta di vivere una vita tranquilla o meno; ognuno di noi ha la propria storia, il proprio percorso: quello che siamo è frutto di scelte, a volte sofferte, ma soltanto nostre. Ed è quando ce ne rendiamo conto che saremo in grado di rovesciare il tavolo, salutare tutti ed uscire di scena. Partire per quel viaggio a lungo sognato, mettere fine ad una storia che non ha più linfa vitale, lasciare un lavoro che non ci soddisfa più, è davvero così difficile? Sì certo che lo è, ma spesso la felicità si nasconde dietro le paure che riusciamo a superare. Quelle decisioni che ci sembrano degli ostacoli insormontabili, una volta prese avranno alleggerito il nostro cuore. Ed è lì che avremmo la certezza di aver fatto la scelta giusta.
La cosa più importante da fare è isolare i condizionamenti esterni o perlomeno selezionarli. In fin dei conti ci sarà sempre qualcuno che ci dirà che stiamo sbagliando tutto, che criticherà le nostre scelte, che tenterà di portarci con i piedi per terra. Le persone piccole, quelle che ci giudicano con superficialità e senza aver camminato “almeno un miglio con le nostre scarpe”, le dovremmo quasi ringraziare. Se tanti ostacoli li supereremo, sarà anche grazie a quei #noncelafaraimai sussurrati, a volte urlati, spesso nascosti dietro sguardi di commiserazione. Saranno la nostra spinta a fare meglio, il nostro orgoglio sepolto che finalmente si deciderà a riemergere in superficie. Non sarà facile, soprattutto se con noi non ci sarà una rete di sostegno, pronta a raccoglierci tutte le volte che cadremo. Ma cosa succede quando sono le persone che fanno parte della nostra vita, quelle che conoscono il nostro percorso, quelle con cui abbiamo condiviso pezzi di vita, a guardarci con l’aria di chi pensa che siamo un caso disperato? Se essere giudicati da chi ci conosce superficialmente fa parte del gioco, è quando a farlo sono le persone che ami che suonerà davvero come una sconfitta. Vi diranno che lo fanno per il vostro bene, io però credo che chi ti ama debba anelare solo alla tua felicità.
Personalmente se mi guardo indietro non posso andare fiera di tutte le mie scelte. Sicuramente sono stata una pazza a rinunciare all’Erasmus per amore di una persona che non so neanche più dove sia e forse anche a tornare in Calabria dopo averla lasciata per dieci anni. Il punto è che ci sono scelte che cambiano definitivamente il corso della nostra vita e altre che lo deviano soltanto. Per intenderci: l’Erasmus non potrò più farlo, cambiare di nuovo città sì. A conti fatti ho chiuso una porta ad una grande opportunità, ma se ne sono presentate tante altre. La mia mezza pena è questa: pensare che se fossi partita non avrei fatto tante altre cose che ho fatto rimanendo. Qualsiasi siano stati i nostri errori, fanno parte del gioco, ma spesso è grazie a questi errori che si raggiunge la felicità, sbagliando. Con coraggio.
E a voi è capitato di prendere una decisione difficile contro tutto e tutti, alla ricerca della felicità?
Giornalista, esperta di marketing territoriale e digital strategist. Sembrano tante qualifiche, ma sono tutte racchiuse in una professione. In parole povere mi occupo di valorizzare aziende e territori. Lo faccio principalmente mettendo assieme strategia e parole. Hai bisogno di aiuto? LAVORA CON ME